PostTrump

La transizione: l’America dopo Trump

Contributi 

The Speaker of the House is dead! Long live the Speaker! Balcanizzazione e disfunzionalità della Camera dei Rappresentanti nell'era dell'iperpolarizzazione di Davide Zecca – 26 Novembre 2023

Le affirmative actions e il paradigma dell’eguaglianza formale: la Costituzione è cieca e la Corte è miope! di Licia Cianci – 8 Novembre 2023

Qual è il contrario di «deference»? La «major questions doctrine», ovvero come, poco a poco, ti limito l’Amministrazione di Luigi Testa – 19 ottobre 2023

Un anno dopo l’'assalto' a Capitol Hill di Guerino D’Ignazio15 gennaio 2022

L'America dopo Trump: si vis pacem, para bellum? di Licia Cianci - 5 marzo 2021

Potenzialità e limiti del XXV emendamento di Giacomo Delledonne - 4 febbraio 2021

A unified government in a divided country di Davide Zecca - 1 febbraio 2021

Jan. 6, 2021 After Recess: Song of Saint Francis. Rising or Setting Sun? di Giovanna Tieghi - 29 gennaio 2021

Trump 2021: un impeachment diverso dagli altri? di Federico Spagnoli - 19 gennaio 2021

Da Trump a Biden: è il momento di ricucire gli strappi  di Andrea Buratti - 18 gennaio 2021

An Endness Story? di Giuseppe Franco Ferrari - 13 gennaio 2021 

Coordinamento: Guerino D’Ignazio, Susanna Mancini, Roberto Toniatti, Graziella Romeo

Presentazione – 10 gennaio 2021 

“American politics has often been an arena for angry minds” scriveva Richard Hofstadter sulle pagine di Harper’s Magazine nel novembre 1964[1]. Hofstadter, storico del pensiero americano, costruiva il proprio ragionamento attorno a una certa tendenza della politica americana alla costruzione paranoica di una figura nemica. Hofstadter non si riferiva alla paranoia come una conclamata patologia clinica, piuttosto un atteggiamento di accesa esagerazione, sospetto e fantasia cospirazionista, che animava l’individuazione di un soggetto ostile, avverso, desideroso di sovvertire l’ideale americano. Per Hofstadter si trattava di un atteggiamento mentale, di natura psicologica, riscontrabile in individui per il resto “normali”, sui quali non era necessariamente riscontrabile una forma di follia. Eppure, questo paranoid style era, per un verso, collegato al modo in cui veniva convogliato il messaggio politico e, per altro verso, al modo in cui quest’ultimo era interiorizzato e azionato da una minoranza dotata di esagerata animosità e tendenza all’estremismo. Hofsradter aveva in mente Barry Goldwater, candidato presidenziale repubblicano alle elezioni vinte da Lyndon Johnson nel 1964. La retorica politica di Goldwater era, nell’America di quegli anni, non meno incendiaria di quella trumpista. Nel discorso di investitura presidenziale Goldwater disse, per esempio: «I would remind you that extremism in the defence of liberty is no vice. And let me remind you also that moderation in the pursuit of justice is no virtue»[2].

Il messaggio di Trump ai suoi sostenitori infuriati per la presunta frode elettorale aveva, più o meno, lo stesso tenore. Un generico appello alla libertà e alla giustizia, in nome delle quali fermare il procedimento di certificazione del risultato elettorale avviato al Congresso, riunito in seduta comune, presieduta per l’occasione dal Vice-Presidente Pence. Una massa di dimostranti in assetto bellicoso ha così fatto irruzione a Capitol Hill mercoledì 6 gennaio 2021, tardivamente invitata dal Presidente uscente ad abbandonare il terreno di sfida, ma non lo spirito di rabbiosa indignazione per la sedicente frode subita. Ora, le vicende della, repentina quanto momentanea, “presa del Congresso” si prestano a essere qualificate da diversi punti di vista.

Innanzitutto, esistono responsabilità penali per coloro che si sono introdotti con l’uso di armi in una sede istituzionale cercando di bloccare l’esercizio ordinario di funzioni pubbliche. Occorrerebbe una puntuale ricostruzione degli accadimenti per stabilire se si tratti di fatti sussumibili sotto la fattispecie del terrorismo interno ovvero del tentativo di insurrezione. In ogni caso, l’autorità giudiziaria dovrà verificare se vi sia stata, e quale forma abbia eventualmente assunto, un’attività preparatoria connessa.

In secondo luogo, deve essere meglio chiarito il ruolo del Presidente uscente Trump, il quale ha per ore aizzato una folla inferocita, rinforzandone il convincimento di sopruso elettorale, sebbene egli sapesse che, per quasi tre mesi, aveva esperito senza successo ogni via legale consentita dall’ordinamento giuridico per contestare il risultato elettorale. E ha inteso animare il momento di follia dei propri sostenitori dopo che la certificazione delle votazioni era avvenuta, ad opera delle autorità statali competenti, soprattutto negli Stati più contesi o too close too call nella notte elettorale.

In terzo luogo, deve essere precisato quale reazione ha a disposizione l’ordinamento americano per esautorare un Presidente che dovesse, a un certo punto, mostrarsi incline a derive autoritarie. Le risposte immediate, sulle quali insistono i commentari di questi giorni, sono state due. Lo strumento dell’impeachment e la rimozione per il tramite del XXV emendamento. Entrambi sono stati evocati dalla Speaker della House of Representative Pelosi e dal futuro Senate Majority Leader Chuck Schumer. Solo che l’impeachment è evidentemente poco adatto a tentazioni insurrezionalistiche, a due settimane dalla scadenza del mandato presidenziale. Il XXV Emendamento, cioè la rimozione del Presidente in carica per incapacità temporanea o permanente è parimenti un’ipotesi che, in un contesto di questa natura, implicherebbe che la maggioranza del Cabinet e il Vice President dichiarassero al Congresso che Trump non è in grado di esercitare le sue funzioni per un’incapacità di tipo psico-fisico (come pure la Cnn suggerisce da qualche giorno). Gli scenari restano ipotesi lunari per un Presidente il cui mandato scade tra due settimane, ma non sono irrilevanti per comprendere la forza di resistenza di una democrazia piuttosto refrattaria all’idea di cedere a forme di “autoprotezione militante”. Così come le ipotesi di perdono, eventualmente concesso dal neo Presidente Biden (alla maniera di Ford con Nixon), non devono essere trascurate, quanto meno perché conclamerebbero questa transizione costituzionale, che poteva essere ordinaria, in una sorta di storico tentativo di conciliazione nazionale di un Paese violato nella sua integrità democratica.

Infine, la linea di comando delle forze di polizia, da un lato, e della National Guard, dall’altro, in un contesto di questa natura meritano attenzione perché è di tutta evidenza che, soprattutto nell’immediatezza dei fatti, la reazione delle autorità di pubblica sicurezza è stata rallentata per una certa confusione nella decisione politica. Lo stesso è evidente anche rispetto alla National Guard, annunciata dal Pentagono, ma giunta con un ritardo inspiegabile (peraltro durante il coprifuoco pandemico).

I quattro profili menzionati attengono al funzionamento della forma di governo, quanto della forma di stato, in contesti di ordinarietà costituzionale e in contesti che si approssimano a forme di rottura o di semi-rottura del patto costituzionale.

Vi è poi un altro profilo, che emerge drammaticamente nel disordine della rabbia post-elettorale, ed è il ruolo dei social media o, per meglio dire, di qualunque contenitore digitale che sia in grado di operare da cassa di risonanza di una certa narrativa. La propaganda che ne risulta è a volte, improvvisata, disordinata, facilmente e immediatamente manipolabile dal potente di turno. Questo elemento amplifica le responsabilità morali, ma finisce per rendere più oscure o meno decifrabili quelle giuridiche.

Insomma, gli eventi del 6 gennaio sono l’epifenomeno di una inquietudine profonda che si presta a essere veicolata confusamente, addirittura verso un assalto, gravissimo quanto velleitario nei fatti, alla sede congressuale. Il suo carattere, a tratti grottesco, non ne diminuisce la gravità, ma anzi induce a riflettere sui processi elettorali, sulla legittimazione delle istituzioni, sul ruolo delle personalità che le ricoprono, sull’autosufficienza del modello della democrazia americana, sul successo delle formule, dai checks and balances in poi.

L’osservatorio La transizione: l’America dopo Trump intende riflettere su tutte le dimensioni dei fatti del 6 gennaio 2021, con l’obiettivo di analizzare da vicino gli Stati Uniti nella fase della difficile transizione a un’era post Trump, ove la divisione sociale ha raggiunto un livello difficilmente componibile solo con le (note) ricette del pluralismo culturale e dell’antidiscriminazione militante e ove le spinte nazionalistiche sono tanto forti quanto quelle che premono verso l’esplorazione di una cultura socialdemocratica, pressoché sparita negli ultimi trent’anni[3].

I contributi sono benvenuti da tutti i cultori del diritto americano e comparato e da tutti i punti di vista, per alimentare il pluralismo del dibattito accademico. L’unica regola che ci imponiamo, per garantire la maggior fruibilità del prodotto, è la lunghezza massima dei caratteri: 6.000, spazi inclusi, per lasciare spazio alla ricchezza delle voci.

Una buona lettura a tutti

 

Graziella Romeo

 

 

[1] R. Hofstadter, The Paranoid Style in American Politics, in Harper’s Magazine, https://harpers.org/archive/1964/11/the-paranoid-style-in-american-politics/, November 1964 issue.

[2] R. Andrews, Famous Lines: A Columbia Dictionary of Familiar Quotations, Columbia University Press, 1997.

[3] G. Packer, I frantumi dell’America, Milano, Mondadori, 2013.