Bad dudes a Guantanamo: promesse elettorali che andrebbero disattese

2018-02-09

di Davide Bacis - 9 febbraio 2018

Sono ormai trascorsi sedici anni da quando, l’11 gennaio 2002, il centro di detenzione di Guantanamo è diventato operativo, segnando l’inizio di un’oscura parentesi nella recente storia americana. Al centro di un acceso dibattito politico tra i democratici che lo vorrebbero smantellato e i repubblicani che, al contrario, ritengono ne siano sottovalutate le potenzialità, il carcere continua ad essere operativo e nel farlo costituisce un esempio tangibile di come la lotta al terrorismo si sia spostata, con la connivenza di parte della società civile e delle istituzioni, in una zona grigia al di fuori dal rispetto dei più fondamentali principi costituzionale.

 

In nome della sicurezza nazionale – perché sembra essere quello il super principio a cui l’operato dell’amministrazione statunitense si è ancorato – anche la Corte Suprema si è mostrata deferente alle ragioni della c.d. war on terror.

A seguito della sua apertura, infatti, il carcere è stato più volte oggetto del sindacato della Corte Suprema, la quale è intervenuta con una serie di pronunce (si vedano in merito Hamdi v. Rumsfeld, 524 U.S. 507 [2004], Rasul v. Bush, 542 U.S. 466 [2004], Hamdan v. Rumsfeld, 548 U.S. 557 [2006] e Boumediene v. Bush, 553 U.S. 723 [2008]) con cui ha applicato importanti correttivi ad alcune delle più evidenti criticità, senza però sindacare efficacemente la legittimità dell’esistenza stessa del centro di detenzione di Guantanamo.

Nello specifico, la Corte ha riconosciuto il diritto di presentare un writ di habeas corpus alle Corti federali, così che coloro che fossero stati trattenuti avrebbero potuto chiedere un esame circa la legittimità della loro detenzione.Se, da un lato, la Corte ha immediatamente riconosciuto che i cittadini statunitensi ivi detenuti godessero del diritto di habeas corpus in forza del dettato costituzionale (Hamdi v. Rumsfeld), al riconoscimento del medesimo diritto per gli stranieri si è giunti a seguito di un più travagliato percorso.

Anzi tutto, a fronte delle argomentazioni dell’Esecutivo, che volevano precluso per i detenuti a Guantanamo l’accesso alle Corti nazionali, in forza del fatto che il carcere si trovasse fisicamente in territorio cubano, la Corte ha stabilito che questi godevano del diritto di habeas corpus così come previsto dalla legislazione ordinaria (Rasul v. Bush).

In seguito, a fronte della decisione della Corte, l’amministrazione Bush instituì i Combatant Status Review Tribunals, commissioni militari competenti per la revisione della legittimità della detenzione a Guantanamo. Con la sentenza Hamdan v. Rumsfeld, la Corte Suprema ne ha sancito l’illegittimità costituzionale. L’amministrazione, infatti, non aveva il potere di istituire commissioni militari senza la preventiva autorizzazione del Congresso.

Con l’approvazione del Military Commissions Act (Public Law 109-366, 120 Stat. 2600) del 2006, il Congresso ha quindi concesso l’autorizzazione necessaria. Di nuovo, la Corte Suprema è intervenuta con la nota sentenza Boumediene, questa volta estendendo le garanzie costituzionali – già riconosciute ai cittadini nella citata sentenza Hamdi – anche agli stranieri.

 

Come noto, il carcere di Guantanamo ha iniziato ad operare poco dopo i tragici eventi dell’11 settembre. Questi, unitamente alla dichiarata intenzione del presidente Bush di intraprendere la c.d. war on terror hanno spinto il Congresso ad approvare tempestivamente, il 14 settembre 2001, l’Authorization for Use of Military Force Against Terrorists (Public Law 107-40, 115 Stat. 224). Con l’atto menzionato, il Congresso ha autorizzato il presidente – nella sua veste di comandante in capo delle forze armate – a far uso della forza necessaria, contro nazioni, organizzazioni e persone che avessero contribuito in qualche misura alla pianificazione o realizzazione concreta degli attacchi dell’11 settembre, al fine di prevenirne di ulteriori.

Il 13 novembre 2001, il presidente Bush ha quindi firmato il Presidential Military Order: Detention, Treatment, and Trial of Certain Non-Citizens in the Wat Against Terrorism che alla section 3 ha ordinato che i sospetti terroristi venissero detenuti in un luogo – che fosse interno ai confini nazionali o in territorio straniero – determinato discrezionalmente dal Segretario della Difesa.  

 

Dalla sua entrata in funzione nel 2002, il carcere ha visto la permanenza di circa 775-780 individui.

La più alta concentrazione di detenuti si è raggiunta durante gli anni della seconda amministrazione Bush. Invero, nell’aprile del 2006, a seguito di un’ordinanza del tribunale, il Dipartimento della Difesa ha reso pubblica una lista contenente i nominativi di 558 persone, all’epoca detenute nel campo di prigionia di Guantanamo e la cui detenzione era stata già sottoposta al vaglio delle commissioni militari di cui si è detto in precedenza. Coerentemente con l’approccio tenuto fino ad allora, il Dipartimento della Difesa ha omesso di indicare il nominativo di quei soggetti rilasciati prima che le commissioni militari entrassero in funzione. La continua resistenza dell’amministrazione è stata, ancora una volta, vinta attraverso un’azione legale presentata da Associated Press in forza del Freedom of Information Act. Nel maggio del 2006, quindi, l’amministrazione Bush ha dovuto rilasciare l’elenco completo di tutti gli individui trattenuti presso il centro detentivo dalla sua apertura fino a quel momento – compresi i soggetti già rilasciati – che constava di 759 nominativi.

Nel corso della presidenza Bush, soprattutto verso la fine del secondo mandato – quando il presidente aveva iniziato a manifestare l’intenzione di terminare le attività del campo di prigionia – circa 530 detenuti sono stati rilasciati, lasciando all’amministrazione successiva il gravoso compito di gestire i 242 rimanenti.

A due giorni dal suo insediamento, il 22 gennaio 2009, il presidente Obama ha firmato un Exetucive Order (Executive Order 13492 of January 22, 2009 Review and Disposition of Individuals Detained at the Guantánamo Bay Naval Base and Closure of Detention Facilities), ordinando la chiusura di Guantanamo entro un anno. Tuttavia, l’intenzione del presidente non è rimasta altro che quello, un’intenzione. La forte opposizione dei repubblicani, che durante le elezioni di metà mandato del 2010 hanno ottenuto il controllo del Congresso, ha portato all’approvazione del divieto di ricollocamento dei prigionieri in carceri federali in territorio statunitense. Inoltre, visto il mancato appoggio bipartisan, era impensabile che un Congresso a maggioranza repubblicano avrebbe approvato un qualsiasi progetto di chiusura definitiva del centro di prigionia.

L’unica soluzioni possibile è stata, quindi, quella di procedere al progressivo rilascio dei prigionieri, trasferiti in Paesi terzi anche diversi da quello di origine. Nello specifico, sono 59 i Paesi che nel corso degli anni hanno accettato di accogliere ex detenuti del carcere di Guantanamo.

Dei 242 iniziali, 197 è il numero di prigionieri che hanno abbandonato la baia cubana nel corso dell’amministrazione Obama (4 sono deceduti durante il periodo di prigionia), con alcune delle partenze avvenute proprio l’ultimo giorno del secondo mandato presidenziale e di questi, solo il 4% sembra aver ripreso parte ad azioni di stampo terroristico (contro il 17% dei detenuti rilasciati dall’amministrazione Bush).

A partire dal 20 gennaio 2017, l’amministrazione Trump si è trovata quindi a dover gestire gli ultimi 41 prigionieri, tutti detenuti da più di dieci anni.

Cosa sarebbe accaduto una volta iniziata la presidenza Trump era chiaro fin dall’inizio della sua campagna elettorale. Il candidato repubblicano, infatti, non ha mai fatto mistero della sua intenzione di continuare a fare un largo uso di Guantanamo, addirittura potenziandone le strutture, con l’intenzione di “load up” il carcere di “bad dudes” e non v’è dubbio che il presidente faccia il possibile per mantenere tutte le promesse elettorali che lo hanno portato allo studio ovale. Poco prima del suo discorso sullo stato dell’Unione, il 30 gennaio 2018, il presidente Trump ha infatti firmato l’ennesimo Executive Order (Executive Order 13823 of January 30, 2018 Protecting America Through The Lawful Detention of Terrorists) con cui ha autorizzato la continuazione delle operazioni del carcere e con cui ha espressamente abrogato il precedente ordine esecutivo del presidente Obama, con cui si ordinava la chiusura del centro detentivo.

 

Ad oggi, il carcere continua ad ospitare 41 sospetti terroristi. Di questi, 23 verranno indefinitamente detenuti – con periodiche revisioni circa la legittimità delle ragioni alla base della loro detenzione – in quanto costituiscono un concreto pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti. L’intenzione dell’amministrazione Trump sarebbe quella di rendere il carcere di Guantanamo uno strumento nella lotta contro lo Stato Islamico. Tuttavia, sebbene le dichiarazioni del presidente siano state in senso contrario, nel primo anno di amministrazione Trump non si è registrato nessun nuovo arrivo nel carcere di Guantanamo. Invero, non se ne registrano dal 14 marzo 2008. Ciò che, invece, può affermarsi con certezza è che la pratica dei rilasci, iniziata sotto la presidenza Bush e continuata dal suo successore, è stata prontamente interrotta. Nessuno, infatti, ha più abbandonato la baia navale di Cuba nel corso del primo anno di presidenza Trump.  

 

Sebbene, quindi, l’ordine esecutivo del 30 gennaio abbia una forte connotazione politica, in linea con la manifestata tendenza ad annullare le policies adottate dalla precedente amministrazione, non è possibile escludere un incremento nell’utilizzo del carcere di Guantanámo. In ogni caso, qualora anche i detenuti rimanessero 41, questi sarebbero 41 casi di palese violazione dei più basilari diritti fondamentali.