Brevi appunti sulla politica energetica della Presidenza Trump al gennaio 2018

2018-01-23

di Valerio Lubello - 23 gennaio 2018

In un contesto globale che vede da più parti gli albori di una vera e propria transizione energetica, la fuoriuscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi e il contestuale stimolo alla produzione interna di energia da fonti convenzionali quali carbone e nucleare si prestano a molteplici letture.

L’obiettivo dichiarato degli Stati Uniti non è solo quello dell’indipendenza energetica, ma anche e soprattutto quello della supremazia energetica del Paese. Forte dei surplus produttivi derivanti dallo sviluppo del c.d. fracking e dalla conseguente disponibilità di gas naturale.

1 - Accordo di Parigi

L’Accordo di Parigi è forse lo strumento più concreto di cui il Pianeta si è dotato per reagire al cambiamento climatico e alla produzione di gas ad effetto serra. Vi aderiscono tutti i Paesi della sfera terrestre, tranne gli Stati Uniti.

All’indomani del proprio insediamento il neoeletto Presidente Trump ha reso infatti esplicita la volontà degli Stati Uniti di uscire dall’Accordo, con le tempistiche e le modalità di cui all’articolo 28 del medesimo. Un tempo di 4 anni in cui gli Stati Uniti devono comunque rispettare obblighi informativi e di compliance. Le non casuali coincidenze  permetteranno così al Presidente eletto nel 2020 di formalizzare o ritirare la definitiva uscita dall’Accordo. 

A ben vedere, la posizione dell’Amministrazione Trump non è stata né improvvisa né inattesa, ponendosi piuttosto nel disegno che Trump aveva già cominciato a delineare durante la campagna elettorale

Si assiste, da un lato, alla banalizzazione sistematica del c.d. global warming con le reiterate critiche al movimento ambientalista, ricondotto ad una sorta di atteggiamento perbenista da dover fronteggiare to Make America Great Again.

Dall’altro, appare evidente che una tale ricostruzione è quanto mai strumentale al raggiungimento di obiettivi diversi del c.d. America First e in primo luogo orientati al costante stimolo dell’economia interna ma con ovvie ripercussioni anche nei rapporti geopolitici.

La fuoriuscita dall’Accordo va allora anzitutto letta insieme alle diverse politiche in materia di politica energetica già intraprese dall’Amministrazione Trump. Alla luce delle quali (di cui si dirà infra), ben si comprendono le reazioni di alcuni Stati e grandi conglomerati urbani che, sulla scia di un fenomeno ormai globale, hanno rilanciato la centralità delle periferie nella lotta al cambiamento climatico. Da segnalare in tal senso sono le iniziative quali United States Climate Alliance che conta 14 Stati con l’aggiunta di Porto Rico e che vorrebbe promuovere il raggiungimento degli obiettivi di Parigi nonostante la volontà dello Stato centrale. Così come l’iniziativa We are still in cui convergono 9 Stati e circa 150 città.

Sul fronte geopolitico, invece, il ritiro dall’Accordo di Parigi permetterebbe agli Stati Uniti di non inseguire le politiche energetiche di Unione europea e Cina, ormai da qualche lustro indirizzate da sistemici interventi ambientali e di riconversione energetica.

Vien da sé poi che la scelta degli Stati Uniti può avere effetti, ancora non del tutto determinabili, sulla tenuta stessa dell’Accordo. A differenza del Protocollo di Kyoto, anch’esso lo si ricorderà non sottoscritto dagli Stati Uniti, l’Accordo di Parigi non fissa infatti obiettivi per ciascuno degli Stati aderenti. Seguendo una logica di tipo bottom up, vuole invece incentivare politiche di emulazione virtuosa tra gli Stati, lasciando sostanzialmente campo libero agli stessi sulla quantità e qualità di iniziative da intraprendere al fine di contenere il surriscaldamento globale entro i due gradi centigradi di qui al 2050. Non possono dunque aprioristicamente escludersi fenomeni di sostanziale allineamento con la posizione statunitense, capaci di vanificare il già labile vincolo sancito dall’Accordo.

Non trascurabili sono poi gli effetti sulla sostenibilità economica dell’Accordo. Gli impegni assunti da ciascuno Stato nell’ambito del U. N. Green Climate Found potrebbero vacillare con il venir meno di un contribuente di peso come sono ovviamente gli Stati Uniti.

Gli scenari, interni ed esterni, sono allora incerti e la concreta dipartita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi ancora lontana nel tempo. Forse suscettibile di auspicabili ripensamenti. 

2 - Energy Indipendence and Economic Growth vs. Clean Power Plan

Tra le misure che di stimolo alla domanda interna va senza dubbio collocato il dibattuto l’executive order adottato il 28 marzo 2017 e volto a promuovere indipendenza energetica e crescita economica (Presidential Executive Order on Promoting Energy Independence and Economic Growth). Destinato alle agenzie federali – in primo luogo alla US Enviromental Protection Agency – ha invero il non celato fine di revocare molte delle politiche a salvaguardia dell’ambiente intraprese dall’amministrazione Obama (di cui aveva già accennato F. Gallarati su questo forum).

L’intento è infatti quello di favorire le industrie del carbone, del gas, del petrolio e della produzione nucleare di energia a discapito dell’intero Clean Power Plan introdotto da Obama.

Sotto la spinta della deregolamentazione vengono infatti revocati numerosi vincoli alla produzione di energia interna: «Accordingly, it is the policy of the United States that executive departments and agencies (agencies) immediately review existing regulations that potentially burden the development or use of domestically produced energy resources and appropriately suspend, revise, or rescind those that unduly burden the development of domestic energy resources beyond the degree necessary to protect the public interest or otherwise comply with the law».

L’Order non sembra essere del tutto insensibile alle dinamiche ambientali. Si afferma infatti che tutte le agenzie sono chiamate a intraprendere le dovute azioni per promuovere aria ed acqua pulite, nel rispetto del riparto di competenze tra Stato centrale e Stati federati (Section 1, (d)).

Gli interventi in materie ambientali da parte delle agenzie vengono poi subordinati al rispetto dei canoni di trasparenza e al rispetto di evidenze scientifiche risultanti dalle riviste di settore. Si chiede altresì che i benefici debbano essere necessariamente maggiori dei costi (Section 1, (e)).  

Subito dopo queste dichiarazioni di principio ecco l’essenza della nuova politica energetica degli Stati Uniti, tutta orientata allo sviluppo e all’utilizzo dell’energia domestica con particolare riguardo a petrolio, gas, carbone ed energia nucleare: «Immediate Review of All Agency Actions that Potentially Burden the Safe, Efficient Development of Domestic Energy Resources. (a) The heads of agencies shall review all existing regulations, orders, guidance documents, policies, and any other similar agency actions (collectively, agency actions) that potentially burden the development or use of domestically produced energy resources, with particular attention to oil, natural gas, coal, and nuclear energy resources» (Sec. 2).

Emblematici anche gli atti presidenziali che vengono espressamente revocati:  (i) Executive Order 13653 of November 1, 2013 (Preparing the United States for the Impacts of Climate Change); (ii) The Presidential Memorandum of June 25, 2013 (Power Sector Carbon Pollution Standards); (iii) The Presidential Memorandum of November 3, 2015 (Mitigating Impacts on Natural Resources from Development and Encouraging Related Private Investment); (iv)The Presidential Memorandum of September 21, 2016 (Climate Change and National Security). Alcuni importanti report in materia ambientale vengono poi annullati: (i) The Report of the Executive Office of the President of June 2013 (The President’s Climate Action Plan); (ii) The Report of the Executive Office of the President of March 2014 (Climate Action Plan Strategy to Reduce Methane Emissions).

 

Tra le misure proposte vi è poi la revisione dei parametri concernenti il c.d. social cost of carbon che in passato aveva limitato lo sviluppo di attività estrattive proprio in ragione dell’impatto climatico del carbone. Si tratta di un parametro capace di calcolare le esternalità negative degli investimenti in campo energetico e in virtù dello stesso ponderare la fattibilità di un determinato progetto. Il parametro viene definito dalla stessa EPA come «an estimate of the economic damages associated with a small increase in carbon dioxide (CO2) emissions, conventionally one metric ton, in a given year». L’Order in particolare dichiara lo soglimento del Interagency Working Group on Social Cost of Greenhouse Gases (IWG) nonché annulla alcuni documenti dallo stesso adottati in quanto non più rappresentativi della politica governativa.  

Sotto la promozione dell’indipendenza energetica e la crescita economica si nasconde inoltre una sorta di negazione orwelliana del climate change. Locuzione che nell’Order non viene mai menzionata, sostituita con la più vaga resilience.  

3 - Shale gas

Ruolo sempre crescente tanto nella domanda interna quanto nelle relazioni geopolitiche è quello del il c.d. shale gas. Il surplus di produzione continua infatti a dare buona linfa all’export di gas liquefatto verso Europe e Asia, con significativi accordi già sottoscritti capaci di sfruttare appieno la capacità dei nuovi terminali di liquefazione della East Coast.

Si rammenti che la frontiera del fracking ha avuto una forte espansione già sotto l’Amministrazione Obama permettendo agli Stati Uniti di divenire tra i più grandi produttori al mondo di gas naturale. Ad oggi le esportazioni muovono verso più di 20 Paesi tra cui si contano Cina, India, Corea del Sud, Messico e Giappone nonché, sul fronte europeo – a mo’ di alternativa dagli approvvigionamenti dell’Est Europa – si segnalano gli accordi già raggiunti con Lituania e quelli in itinere con la Polonia.

4 - Drilling and pipelines

Nell’ottica dell’”energy dominance” va inoltre letta la recente proposta di sviluppo delle attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi offshore. Il National Outer Continental Shelf Oil and Gas Leasing – 2019-2024, adottato in forza della Section 18  Outer Continental Shelf (OCS) Lands Act, prevede concessioni nell’Artico, nell’oceano Pacifico, nell’oceano Atlantico e nella parte Est del Golfo del Messico.  Il Piano per la sua ampiezza colloca di fatto l’attività estrattiva al centro della politica energetica degli Stati Uniti coprendo un arco temporale di 40-70 anni.

Tra le misure controverse e dibattute si collocano altresì le accelerazioni autorizzatorie della presidenza Trump per quanto concerne la realizzazione della Dakota Access Pipeline e la Keystone XL Pipeline. La prima attraversa quattro Stati, North Dakota, South Dakota, Iowa, Illinois lambendo in corrispondenza del lago Oahe la riserva Standing Rock Sioux mettendone a repentaglio, stando alle veementi proteste di nativi e ambientalisti, la qualità delle acque.  La seconda invece attraversa Montana, South Dakota, Nebraska, Kansas, Oklahoma e Texas permettendo il trasporto di greggio dal Canada ai terminali della Gulf Coast. Anch’essa è da più parti osteggiata per il forte impatto ambientale. 

I progetti, sostanzialmente bloccati sotto la presidenza Obama, sono stati dunque rilanciati, ancora una volta in coerenza con la vivace campagna elettorale promossa dal Presidente Trump.

5 - Sicurezza energetica

Sul fronte della sicurezza energetica si registra il Piano proposto dal Department of  Energy in materia di sicurezza energetica, adottato dal Segretario del Department of Energy Rick Perry al fine di garantire la sicurezza di approvvigionamento in caso di emergenza.  Senonché molti sono i dubbi circa la sua efficacia e ciò in quanto il piano si sostanzia in un evidente incentivo alla produzioni di energia a carbone e nucleare, messe a dura prova dalla combinazione dell’abbassamento dei prezzi del gas naturale e dal contestuale costante sviluppo delle produzione di energia da fonti rinnovabili. Il Piano prevede infatti massicci rimborsi per i soli impianti a carbone e nucleari capaci di mantenere una riserva energetica pari a 90 giorni di fabbisogno, a prescindere da qualsiasi valutazione di competitività e da qualsiasi dinamica di mercato.

Il Piano è stato recentemente respinto dalla Federal Energy Regulatory Commission (FERC) sul presupposto che non vi sarebbero motivi sufficienti per ritenere necessarie misure di supporto al carbone e al nucleare. Secondo la FERC la sicurezza energetica andrebbe invero ricercata sull’effettiva tenuta della rete di trasmissione e non sulla quantità di energia immessa nella stessa.

6 - Energie rinnovabili

Da quanto su esposto sembrerebbe che l’energia prodotta da fonti rinnovabili stia assumendo un ruolo marginale nelle politiche energetiche statunitensi e ciò nonostante il recente Tax Bill abbia confermato le politiche di tax credit già in essere per il settore. 

Purtuttavia la produzione di energia da fonti rinnovabili – forte anche di un costante abbassamento dei prezzi delle tecnologie legate al fotovoltaico e all’eolico e di una sensibile presenza di alcuni campioni della green economy nel settore privato – mostra una certa maturità anche a prescindere da stimoli o misure ostative.

Uno snodo importante potrebbe aversi già nelle prossime settimane quando lo stesso Trump dovrà prendere posizione – ai sensi della Section 201 del 1974 Trade Act – sull’introduzione di dazi per l’importazione di pannelli fotovoltaici (c.d. Suniva case). Scelta non facile: la coerenza con i piani di stimolo alla domanda interna stride con la necessità di mantenere in piedi un settore in espansione che vede buona parte della componentistica arrivare dall’estero.