Anticipazione DPCE Online - 2-2020 - Il principio di attribuzione e le corti costituzionali nazionali. Sulla pronuncia del Bundesverfassungsgericht del 5 maggio 2020

2020-05-13

[clicca qua per scaricare il .pdf]

di Omar Chessa

La pronuncia del tribunale costituzionale tedesco del 5 maggio è importante non solo perché aggiunge un altro tassello al quadro delle pronunce giurisdizionali che hanno per oggetto le competenze della BCE in materia di politiche monetarie “non convenzionali”, ma anche perché fornisce l’occasione di un actio finium regundorum in tema di rapporti tra giurisdizione europea e corti costituzionali nazionali con riguardo all’interpretazione del diritto UE.

La vicenda è nota, non foss’altro perché s’inserisce nel dibattito in corso sul ruolo e i limiti della BCE nel fornire supporto alle politiche fiscali degli Stati membri che rischiano di essere più duramente colpiti dalla crisi economica conseguente al lockdown da Covid-19. Nel 2016 alcuni uomini politici e accademici tedeschi si rivolgevano al tribunale di Karlsruhe, lamentando il comportamento omissivo del governo federale germanico e del Bundestag, poiché non avrebbero intrapreso azioni dirette ad assicurare la revoca o la non esecuzione del programma di quantitative easing varato dalla BCE nel 2015 e denominato Public Sector Purchase Programme (PSPP). A giudizio dei ricorrenti, tale programma sarebbe ultra vires, in quanto lesivo del divieto di finanziamento monetario degli Stati membri ex art. 123 del TFUE, e di conseguenza invaderebbe le competenze nazionali in tema di «politica economica», in particolare quelle del Governo Federale e del Bundestag, con grave pregiudizio del diritto individuale di autodeterminazione democratica vantato dai ricorrenti e basato sugli artt. 20, comma primo e secondo, 38, comma primo, e 79, comma terzo, della Legge Fondamentale (Grundgesetz).

Il Secondo Senato del Bundesverfassungsgericht, con ordinanza del 18 luglio 2017, operava rinvio pregiudiziale alla Corte europea di giustizia ai sensi dell’art. 267, comma primo, del TFUE, specialmente chiedendo al giudice lussemburghese lumi sulla questione se il PSPP fosse stato adottato ultra vires per violazione dell’art. 123 TFUE e se influenzasse significativamente le condizioni di rifinanziamento degli Stati membri, perseguendo con ciò un «obiettivo di politica economica» in aggiunta a quello di politica monetaria. La Corte del Lussemburgo con la sentenza Weiss dell’11 dicembre 2018 dichiarava il QE in questione conforme ai Trattati.

Ma nella sentenza del 5 maggio 2020, che qui si commenta, la Corte di Karlsruhe sconfessa il pronunciamento del giudice europeo, rivendicando per sé un autonomo potere di interpretazione e applicazione dei Trattati; e dichiara ultra vires il PSPP, nel presupposto che non abbia adeguatamente ponderato alla luce del principio di proporzionalità gli «effetti di politica economica» che ne potrebbero conseguire: effetti di per sé esulanti dalla conduzione delle politiche monetarie e quindi lesivi delle competenze nazionali in materia di politica fiscale. Tuttavia, offre alla BCE la possibilità di chiarire la propria posizione, concedendo un termine di tre mesi per la trasmissione di un memorandum esplicativo diretto a contro-argomentare perché dal programma di QE non deriverebbero le implicazioni denunciate.  

Già da queste prime battute emerge un dato significativo in ordine al modo in cui la Corte germanica inquadra il rapporto tra ordinamenti, specialmente se messo a confronto coll’orientamento seguito dal nostro tribunale costituzionale. Mentre la Corte italiana si attiene all’interpretazione dei Trattati offerta dalla Corte lussemburghese, riconoscendole l’ultima parola sul diritto europeo e riservandosi semmai di sindacarne la compatibilità coi controlimiti che si evincono dal nostro dettato costituzionale, invece il tribunale costituzionale tedesco concepisce il proprio ruolo in termini significativamente più estesi, poiché estende il proprio scrutinio finanche al rispetto del diritto dell’Unione da parte degli organi UE, con ciò mostrando di non sentirsi vincolato dalla giurisprudenza sovranazionale in ordine all’interpretazione dello stesso diritto europeo.

Si consideri, ad esempio, quel passo della pronuncia ove si afferma che «in light of Art. 119 and Art. 127 et seq. TFEU as well as Art. 17 et seq. ESCB Statute, the ECB Governing Council’s Decision of 4 March 2015 (EU) 2015/774 and the subsequent Decisions (EU) 2015/2101, (EU) 2015/2464, (EU) 2016/702 and (EU) 2017/100 must be qualified as ultra vires acts, despite the CJEU’s judgment to the contrary» (corsivo mio). Vale a dire, nonostante il contrario avviso della Corte di giustizia, la Corte germanica ritiene che la BCE abbia agito ultra vires violando gli artt. 119, 127, 17, dello ESCB Statute.

Prudentemente, i giudici costituzionali tedeschi non affermano in modo esplicito il proprio primato in ordine all’interpretazione e applicazione del diritto europeo. Anzi, riconoscono che «the Treaties confer upon the CJEU the mandate to interpret and apply the Treaties and to ensure uniformity and coherence of EU law»; e che «it is imperative that the respective judicial mandates be exercised in a coordinated manner». La parola d’ordine ufficiale, perciò, è “coordinamento” tra le corti e non già primazia di una sull’altra, e ciò in nome della «multi-level cooperation of sovereign states, constitutions, administrations and courts». E ancora: la Corte di Karlsruhe avverte che «if any Member State could readily invoke the authority to decide, through its own courts, on the validity of EU acts, this could undermine the precedence of application accorded to EU law and jeopardise its uniform application».

Sennonché, nella riga successiva tutto quello detto prima viene nella sostanza rovesciato, facendo presente che la mancata vigilanza delle corti nazionali sugli atti ultra vires dell’Unione assegnerebbe agli organi di questa un’autorità esclusiva sui Trattati, anche nei casi in cui adottassero interpretazioni dirette essenzialmente a modificare il Trattato o a espandere le loro competenze[1]. In altre parole, per la Corte di Karlsruhe la gestione del principio di attribuzione non può essere affidata esclusivamente all’Unione e, in particolare, alla giurisprudenza della Corte di giustizia: se questa avesse l’ultima parola sull’estensione delle competenze sovranazionali, l’Unione potrebbe riplasmare a piacimento e a proprio esclusivo vantaggio il confine che separa gli ambiti di spettanza europea da quelli di pertinenza nazionale. Sicché il giudice costituzionale tedesco rivendica ed effettivamente proferisce l’ultima parola non solo sulla compatibilità tra diritto costituzionale interno e diritto europeo, ma anche sulla corretta interpretazione di quest’ultimo.

Ovviamente, il tribunale germanico circonda di cautele la rivendicazione del proprio primato. Ad esempio, afferma che «the ultra vires review must be exercised with restraint, giving effect to the Constitution’s openness to European integration» e ammette che, in prima battuta, debba essere la Corte lussemburghese a interpretare e applicare il diritto europeo in modo vincolante, anche discostandosi dagli orientamenti interpretativi offerti dalle corti nazionali, purché però sia un’attività informata a «recognized methodological principles» e non sia «objectively arbitrary from an objective perspective»: in caso di interpretazioni “oggettivamente arbitrarie alla luce di un punto di vista oggettivo” il Bundesverfassungsgericht afferma, perciò, di non ritenere più vincolanti le pronunce del giudice europeo.

3. Per quanto attiene alle condizioni di utilizzo del principio di attribuzione quale chiave di accesso per “appropriarsi” del diritto europeo, le parole del Bundesverfassungsgericht paiono sfuggenti.

Difatti, afferma  che «an act violates the principle of conferral where institutions, bodies, offices and agencies of the European Union have exceeded the limits of their competences in a manner that specifically runs counter to the principle of conferral (Art. 23(1) GG); in other words, it must be established that the violation of competences is sufficiently qualified. This requires that the act manifestly exceeds EU competences, resulting in a structurally significant shift in the division of competences to the detriment of the Member States. A structurally significant shift of competences to the detriment of the Member States results where the exceeding of competences has a considerable impact on the principle of conferral and on the extent to which respect for the legal order, as part of the rule of law, is upheld».

A dispetto del numero di termini impiegati, si tratta di indicazioni povere di contenuto, assai laconiche nella sostanza e in taluni casi persino tautologiche: si dice, infatti, che il principio di attribuzione è violato quando le istituzioni, gli organi, le articolazioni, ecc., dell’UE eccedono le loro competenze in una maniera che “specificamente” va contro il principio di attribuzione; che l’eccesso di competenza debba essere “sufficientemente qualificato” e che ciò si verifica quando un atto “manifestamente” oltrepassa le competenze UE, producendo come esito un “cambiamento strutturalmente significativo del riparto di competenze a detrimento degli Stati membri”; a sua volta, tale cambiamento è detto “strutturalmente significativo” quando l’eccesso di competenza ha “un considerevole impatto sul principio di attribuzione”, dimostrando con ciò l’andamento ricorsivo del ragionamento.

4. L’argomentazione della Corte tedesca appare apodittica, ricorsiva e anche arrogante, nella misura in cui, per l’appunto, si arroga un’obiettività di giudizio che è negata agli altri[2]. Eppure, va riconosciuto che mette a fuoco un nodo strutturale del rapporto tra ordinamenti, che è illusorio pretendere di sciogliere semplicemente asserendo che alla Corte del Lussemburgo spetta l’interpretazione e applicazione del diritto europeo, mentre alle corti costituzionali nazionali l’interpretazione e l’applicazione del diritto costituzionale interno.

È sicuro che l’ordinamento UE non abbia una Kompetenz-Kompetenz nel senso pregnante del termine, poiché non dispone sovranamente delle sue competenze (cioè non le determina, né quindi può ampliarle). È, per l’appunto, soggetto al principio di attribuzione, nel senso che gli organi sovranazionali possono esercitare solo le competenze attribuite dai Trattati, i quali a loro volta sono vigenti per effetto della legge interna che ne ordina l’esecuzione. Ciò premesso, dobbiamo chiederci se invece sia possibile riconoscere all’ordinamento europeo una Kompetenz-Kompetenz di tipo giurisdizionale, cioè se abbia una «strong interpretive autonomy», un potere di interpretazione ultima in ordine al contenuto e alla estensione delle competenze attribuite. Insomma, per usare le parole di Thomas Schilling, il dilemma è «whether only Community institutions are competent to interpret Community law, including the European Treaties themselves (strong interpretive autonomy) or whether the Member States have some say in that matter (weak interpretive autonomy»[3]. Ma lo stesso Schilling, che ha impostato il dilemma, giunge alla conclusione che «general international law does not provide any guidance on this question»: in base al diritto internazionale generale, perciò, parrebbe irresolubile la questione se l’ultima parola circa l’interpretazione e l’applicazione del diritto europeo spetti a organi dell’ordinamento sovranazionale ovvero a organi degli Stati membri.

Di avviso diverso è la tesi di chi ritiene che la Kompetenz-Kompetenz giurisdizionale della Corte di giustizia sia perfettamente coerente con la logica del diritto internazionale pubblico, considerato che «il diritto internazionale non concederebbe certo agli Stati, presi singolarmente, il diritto di avere l’ultima parola sulle questioni riguardanti le competenze di un’organizzazione internazionale, proprio come non concederebbe tale strumento decisivo ad uno Stato su qualsiasi aspetto del trattato a cui avesse aderito (...) Tutt’al più, gli Stati membri dell’Unione, agendo all’unanimità, seguendo, generalmente, la procedura di revisione prevista dal trattato, possono determinare, emendare e modificare i trattati, inclusa la portata delle competenze»[4]. E a maggior ragione, se «un trattato istituisce una procedura per la soluzione vincolante di controversie, e in particolare organi giudiziari, l’autointerpretazione è giuridicamente ridotta al silenzio», tanto più che «la risoluzione vincolante ottenuta in via giudiziaria risulterebbe svuotata di significato se gli Stati soggetti a tali procedure fossero, poi, giuridicamente liberi di ricorrere alla “autointerpretazione” di ignorare la decisione del tribunale internazionale»[5].

Tuttavia, questo confronto si svolge interamente sul piano del diritto internazionale pubblico e non su quello del diritto costituzionale (interno): anche se l’interpretazione dei Trattati UE alla luce dei principi di fondo del diritto internazionale non ammettesse il potere di auto-interpretazione degli Stati membri, comunque tale rilievo non sarebbe di per sé vincolante ai fini del diritto costituzionale nazionale. È sempre possibile, infatti, una dissociazione tra diritto internazionale e diritto pubblico statale. Il primo postula la regola secondo cui le volontà statali che convergono nella conclusione di un trattato generano obblighi internazionali vincolanti per le parti contraenti, ma non si pone il problema giuridico se tali volontà statali si siano formate in modo costituzionalmente corretto; non distingue, cioè, tra manifestazioni di volontà statale costituzionalmente legittime e illegittime: pure le seconde potrebbero essere alla base di trattati, con quel che ne consegue sotto il profilo della responsabilità internazionale dello Stato in caso di inadempimento degli obblighi pattizi[6].

La regola pacta sunt servanda, pertanto, se anche è produttiva di obblighi e responsabilità internazionali, non potrebbe comunque fondare, sul piano giuridico interno, la vincolatività di trattati che per il diritto costituzionale non potevano essere legittimamente conclusi[7]. Ad esempio, l’art. 11 della nostra Costituzione consente solo le «limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni», cosicché non sarebbe certo valido, sul piano costituzionale interno, un trattato che trasferisse stabilmente competenze legislative in favore di un’organizzazione internazionale costituita per fini che contrastassero coi valori della «pace e della giustizia fra le Nazioni» (per esempio, un’organizzazione che perseguisse l’obiettivo di un’espansione coloniale militare, con la conseguente creazione di strutture di governo autoritarie nei territori occupati).

In definitiva, quello che può essere legittimo e obbligante sul piano del diritto internazionale pubblico potrebbe invece essere invalido e nient’affatto vincolante sul piano del diritto pubblico statale. Di qui il grave dilemma se debba riconoscersi il primato dell’uno o dell’altro: un dilemma che in parte si ripropone allorquando ci si chiede se il potere di vigilare sul rispetto del principio di attribuzione spetti alla Corte di giustizia ovvero ai tribunali costituzionali nazionali. Non c’è dubbio che quando il giudice lussemburghese esercita il potere di interpretazione ultima delle disposizioni pattizie in ordine al riparto di competenza tra l’ordinamento europeo e quelli nazionali, si pronuncia indirettamente anche sulla estensione e/o intensità delle «limitazioni di sovranità» consentite dal dettato costituzionale nazionale: e quanto più estensiva sarà l’interpretazione delle competenze europee tanto maggiore sarà il limite posto a carico di quelle nazionali. Bisogna chiedersi allora se i tribunali costituzionali possano accettare il metodo dell’interpretazione costituzionale conforme ai Trattati (per come questi sono interpretati dalla Corte di giustizia) o se invece sia più naturale che affermino l’obbligo di interpretazione dei Trattati conforme a Costituzione.

L’alternativa è una di quelle cui non si può sfuggire: o prevale il punto di vista del tribunale costituzionale su quali deroghe il dettato costituzionale consente (e quali esclude) o prevale il punto di vista della Corte europea su quali deroghe il diritto europeo pattizio pone a carico della Costituzione. Nel primo caso è l’interpretazione della Costituzione a guidare l’interpretazione dei Trattati, nel secondo è l’interpretazione dei Trattati a guidare l’interpretazione della Costituzione. Nel primo caso il primato è del tribunale costituzionale, nel secondo è della Corte europea di giustizia.

Tuttavia, l’impostazione seguita dal tribunale germanico, pur intercettando un nodo strutturale di non facile soluzione, introduce una palese confusione di piani. A ben vedere, il vero punto controverso non è se sia concepibile un autentico primato del diritto europeo (per come è interpretato e applicato dalla giurisdizione sovranazionale) rispetto al diritto costituzionale nazionale (per come interpretato e applicato dal tribunale costituzionale): chi scrive ritiene che l’ordinamento europeo abbia carattere derivato e l’ordinamento costituzionale carattere originario[8], sicché è facilmente intuibile quale corno dell’alternativa accolga. Invece nel caso di specie la questione è se il tribunale costituzionale nazionale possa legittimamente ritenere che la sua “cassetta degli attrezzi” vada oltre le disposizioni costituzionali, per comprendere anche l’interpretazione e applicazione del diritto europeo al posto della Corte di giustizia. Va da sé che in un quadro siffatto di rapporti tra corti l’istituto del rinvio pregiudiziale equivale a una richiesta di parere e nulla di più.

5. Questa interpretazione estensiva dei compiti della giurisdizione costituzionale non è certo priva di rischi, come si evince d’altronde dalla pronuncia del 5 maggio.

Infatti, entrando nel merito del decisum, bisogna chiedersi se la vigilanza dei giudici di Karlsruhe circa il rispetto del principio di attribuzione abbia dato buoni frutti. La risposta, ad avviso di chi scrive, è negativa, poiché nel caso di specie lo scrutinio operato dalla Corte di giustizia sulle decisioni della BCE sospettate di essere ultra vires si è rivelato più preciso e corretto di quello svolto dal tribunale costituzionale germanico.

Nelle intenzioni della BCE «the PSPP intends to further ease monetary and financial conditions – including those relevant to the borrowing conditions of businesses and households –, thereby supporting aggregate consumption and investment spending in the euro area and ultimately contributing to a return of inflation rates to levels below, but close to, 2%». Se ne afferma, quindi, la strumentalità rispetto all’obiettivo di inflation target fissato dal Trattato, col proposito di asseverarne la sicura riconducibilità alle competenze della central bank in materia di politica monetaria. Poiché da anni l’inflazione europea è tutt’altro che vicina al 2%, la BCE ritiene di dover incrementare l’offerta monetaria per facilitare l’erogazione di prestiti a imprese e famiglie, nella speranza di stimolare gli investimenti e i consumi quanto occorre per raggiungere l’auspicato rincaro dei prezzi fino quasi a lambire la soglia prescritta.

Ovviamente, non è questa la sede per discutere le assunzioni di teoria economica che guidano le scelte della banca centrale europea[9]. Qui interessa solo rimarcare che l’obiettivo dichiarato dal central banking è anche quello realmente perseguito e non già una finalità “di facciata”, diretta a mascherare altri scopi, in particolare quelli esulanti dai compiti istituzionali stabiliti dai Trattati. Di avviso diverso è – invece – la Corte germanica, la quale da un lato ha respinto (giustamente) la tesi secondo cui il programma di QE in oggetto violerebbe «il divieto di finanziamento monetario dei bilanci pubblici» (ex art. 123 TFUE), ma dall’altro ha ritenuto che comunque eccedesse le competenze della BCE, alla quale spetta soltanto la conduzione della politica monetaria, essendo la “politica economica” riservata agli Stati membri.

È noto che, a rigore, anche la politica monetaria rientra nella politica economica complessivamente intesa, insieme alla politica fiscale e alla politica di regolazione del mercato. Ma in questo caso è palese che per “politica economica riservata agli Stati membri” s’intende la politica fiscale strettamente intesa, per come è determinata dalla decisione nazionale di bilancio. In particolare, per il giudice tedesco «il PSPP migliora le condizioni di rifinanziamento degli Stati membri, perché possono ottenere prestiti sul mercato dei capitali a condizioni significativamente più favorevoli; ha quindi un significativo impatto sulle condizioni di politica fiscale in cui operano gli Stati membri» (trad. mia). Di qui il suo carattere ultra vires e, per ciò stesso, invasivo di competenze nazionali.

Tuttavia, la conclusione cui perviene la Corte tedesca prova troppo. Le decisioni di una banca centrale indipendente, infatti, impattano sempre e comunque sulle condizioni di esercizio della politica fiscale, nel bene o nel male e quindi a prescindere che tali decisioni siano restrittive o espansive della base monetaria. È vero che un programma di QE potrebbe favorire soprattutto la politica fiscale di quegli Stati membri che, come l’Italia, altrimenti rischierebbero di indebitarsi a costi troppo elevati se non insostenibili; ma è altresì vero che una conduzione “severa”, poco espansiva della politica monetaria potrebbe favorire invece la politica fiscale di quegli Stati membri che, come la Germania, lucrerebbero il differenziale dei tassi di interesse. Poiché non esiste una politica monetaria “neutrale” rispetto alle condizioni di esercizio della politica fiscale, ne discende che qualsiasi scelta della BCE ha effetti redistributivi a beneficio di alcuni e col sacrificio di altri.

Peraltro, è noto che tale efficacia redistributiva delle scelte di politica monetaria è a larghissimo spettro, potendo riguardare praticamente tutti gli attori di un sistema economico e non solo la finanza pubblica: sistema bancario e finanziario, risparmiatori, lavoratori, imprese, ecc.[10]. Per queste ragioni, nonostante il diverso avviso del Bundesverfassungsgericht, non è certo un argomento valido contro il PSPP il fatto che abbia «un impatto anche sul settore bancario, in quanto trasferisce grandi quantità di titoli di Stato ad alto rischio nei bilanci dell’Eurosistema e così facendo migliora la situazione economica delle banche e ne aumenta la valutazione della qualità creditizia»; così come non lo è il fatto che fra le sue conseguenze ci sia pure «un impatto economico e sociale su quasi tutti i cittadini, che sono interessati almeno indirettamente come azionisti, affittuari, proprietari di immobili, risparmiatori e titolari di polizze assicurative», per non parlare delle «imprese che non sono più economicamente redditizie di per sé» e che tuttavia «rimangono sul mercato in conseguenza del livello generale dei tassi d'interesse ridottosi mediante il PSPP».

Repetita iuvant: tutte le scelte della BCE in materia monetaria, quali che esse siano, producono effetti, nel bene o nel male, sui soggetti di cui sopra (banche private, finanza pubblica, compagnie assicurative, istituzioni finanziarie, risparmiatori, imprese, ecc.), avvantaggiando taluni e sfavorendo altri, sicché o sono tutte ultra vires, in quanto produttive di «effetti di politica economica», oppure nessuna lo è (salvo, ovviamente, il finanziamento diretto dei disavanzi di bilancio, vietato dall’art. 123 TFUE).

6. Posto che il PSPP non determina una “menomazione” delle competenze nazionali in materia di politica fiscale, a fortiori neanche può sostenersi che dia luogo a un più grave fenomeno di “usurpazione”[11].

L’accusa mossa dal giudice tedesco è che il programma di QE in oggetto, influenzando il tasso di interesse sul debito sovrano, sia invero una decisione di «politica economica». È ormai risaputo, però, che i tassi di interesse sul debito pubblico non sono determinabili dalle politiche economiche nazionali (perlomeno dei Paesi che fanno parte dell’Eurozona). L’Italia non può scegliere se indebitarsi a basso costo oppure no: non è un effetto che rientra nella disponibilità delle sue decisioni di politica fiscale. Semmai è un fatto esogeno che s’impone alle politiche nazionali, determinando la direzione della decisione di bilancio.

Presumibilmente, la Corte germanica muove dal postulato che esista – rectius: debba esistere – un mercato finanziario concorrenziale dei titoli di stato, che premia i Paesi più “virtuosi” nella conduzione delle politiche fiscali, garantendo finanziamenti a basso costo, e che, viceversa, punisce con interessi elevati quelli che sono meno virtuosi. Ecco, in base a questo schema di pensiero l’«effetto di politica economica» è il fatto che alcuni Stati siano puniti meno di quanto meriterebbero (e di contro, altri Stati premiati meno di quanto accadrebbe senza l’intervento della BCE).

Lasciando da parte la questione di cosa veramente renda “virtuosa” o “viziosa” una politica fiscale, rimane comunque che, pure volendo accogliere la visione mainstream di cosa sia una finanza pubblica “sana”, non è affatto detto che essa produca bassi tassi di interesse quali «effetti di politica economica»: la politica fiscale italiana, ad esempio, registra avanzi primari da circa vent’anni, sicché a rigore non “meriterebbe” di essere punita con alti costi di indebitamento. Insomma, a fare problema è il postulato implicito da cui sembra muovere la Corte tedesca: e cioè, che le politiche economiche fiscali, “giuste”, “sane”, determinerebbero tassi convenienti, mentre quelle “scorrette”, “insane”, genererebbero tassi sconvenienti.

Bisogna invece ricordare ancora una volta che l’interesse sui BTP italiani è legato al denomination risk e non già a un giudizio di approvazione o disapprovazione delle politiche economiche nazionali da parte dei mercati finanziari: questi non sono una sorta di opinione pubblica olimpicamente disinteressata, ma una platea di operatori fortemente auto-interessati, le cui valutazioni sono orientate verso il massimo profitto al minor rischio. E può succedere pertanto che una medesima tipologia di politica fiscale sia a volte “punita” e a volte “premiata”, secondo le circostanze e le valutazioni di convenienza del momento. Il tasso di interesse sul debito pubblico è un «effetto di politica economica» non padroneggiabile dalla politica economica degli Stati membri privi di sovranità monetaria; ed è più che altro un “effetto di decisioni di finanza privata”.

7. In conclusione, il PSPP rientra a pieno titolo tra gli strumenti della politica monetaria legittimamente adoperabili dalla BCE, sicché il suo varo non è una decisione ultra vires e lesiva del principio di attribuzione. Ritorna, dunque, la questione basilare di stabilire a chi spetti la vigilanza ultima sul rispetto di questo principio.

Per la Corte tedesca non può competere in ultima istanza alla Corte di giustizia perché altrimenti c’è il rischio che l’UE riplasmi a proprio vantaggio la distribuzione delle competenze tra ordinamento sovranazionale e Stati membri, introducendo modifiche sostanziali ai Trattati, seppure nella via informale delle pronunce giurisdizionali. Ma la soluzione alternativa presenta il rischio speculare che sia il tribunale costituzionale a riplasmare il riparto competenziale, questa volta a vantaggio dello Stato membro e sempre senza passare per una modifica formale dei Trattati.

L’alternativa è di quelle drammatiche. E se adesso è emersa in tutta la sua icastica evidenza, ciò prova che qualcosa si è rotto, e non semplicemente inceppato, nel processo integrativo europeo. È fondatissimo il sospetto che con la decisione del 5 maggio, pur formalmente rivolta al PSPP del 2015, si voglia impedire l’esecuzione del PEPP, varato nel marzo 2020 anche col proposito di calmierare i tassi di interesse del debito pubblico di taluni Stati membri, tra i quali l’Italia. Va sicuramente in tal senso la decisione del consiglio direttivo della BCE di “relativizzare” il capital key quale criterio di riparto degli acquisti tra i bonds emessi dai Paesi membri, in modo da concentrare l’intervento soprattutto a favore di quelli più bisognosi[12].  

Ora, è probabile che il PEPP, per via delle sue modalità di esecuzione ed entità, sollevi più problemi di compatibilità coi Trattati rispetto al PSPP e che, pertanto, in questo secondo caso la pretesa del Bundesverfassungsgericht di sindacare il rispetto del principio di attribuzione sia meno dubbia (anche perché richiamerebbe le stesse condizioni generali di legittimità del QE indicate dalla corte lussemburghese nella pronuncia Weiss). Se però la corte tedesca riuscisse nell’intento di imporre il MES (e la sua rigorosa condizionalità) come via maestra dell’assistenza finanziaria agli Stati[13], chiediamoci cosa accadrebbe se, per tutta risposta, la Corte costituzionale italiana, attivando il rimedio dei controlimiti, dichiarasse la contrarietà a Costituzione delle misure obbligatorie di aggiustamento macroeconomico legate al fondo salva-Stati, per violazione dell’obbligo costituzionale di politiche di piena occupazione quale può evincersi dall’art. 4 (che rientra indubbiamente tra i principi fondamentali o supremi dell’ordinamento costituzionale italiano).

È di tutta evidenza che i tribunali costituzionali hanno un potere enorme, come è dimostrato dalla vicenda che si commenta. Ma forse è auspicabile che l’ultima parola sulle sorti del processo integrativo (o dis-integrativo) europeo sia della politica democratica e non di pronunce giurisdizionali adottate in ordine sparso.

 

 

 

 

 

[1] «if the Member States were to completely refrain from conducting any kind of ultra vires review, they would grant EU organs exclusive authority over the Treaties even in cases where the EU adopts a legal interpretation that would essentially amount to a treaty amendment or an expansion of its competences».

[2] Acutamente, F. Saitto, «Tanto peggio per i fatti». Sipario sulla presidenza Vosskuhle: il caso quantitative easing di fronte al Bundesverfassungsgericht, in Diritti comparati, 7 maggio 2020, 4, osserva che «il bundesverfassungsgericht si dimostra un giudice abituato, con le sue Urteilsverfassungsbeschwerden, a rimproverare gli altri attori giurisdizionali che esercitino in modo inappropriato la loro funzione».

[3] T. Schilling, The Autonomy of the Community Legal Order. An Analysis of Possible Foundations, in Harvard International Law Journal, n. 37, 1996, 389 ss., leggibile pure su www.jeanmonnetprogram.org.

[4] J.H.H. Weiler, The Constitution of Europe (1999), trad. ital. La Costituzione dell’Europa, il Mulino, Bologna, 2003, 398.

[5] J.H.H. Weiler, op. cit., 418, 420.

[6] A tale proposito vengono in rilievo due disposizioni della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. L’art. 26 dispone che «una parte non può invocare le disposizioni della propria legislazione interna per giustificare la mancata esecuzione di un trattato». Ma ai fini del nostro problema è indubbiamente più calzante la previsione dell’art. 46, secondo cui «il fatto che il consenso di uno Stato ad essere vincolato da un trattato sia stato espresso violando una disposizione del suo diritto interno concernente la competenza a concludere trattati, non può essere invocato da tale Stato per infirmare il proprio consenso, a meno che tale violazione non sia stata manifesta e non concerna una norma di importanza fondamentale del proprio diritto interno»; e ancora, sempre l’art. 46 precisa che «una violazione è manifesta quando essa appaia obiettivamente evidente ad ogni Stato che si comporti, in materia, in base alla normale prassi ed in buona fede». Ebbene, va detto che per le loro caratteristiche naturali di complessità le questioni di legittimità costituzionale delle leggi di esecuzione (e delle leggi, in genere) raramente sono annoverabili tra le «violazioni manifeste» cui si riferisce l’art. 46; e in ogni caso un’eventuale pronuncia di incostituzionalità che colpisse una legge di esecuzione difficilmente individuerebbe un vizio di costituzionalità «obiettivamente evidente ad ogni Stato che si comporti, in materia, in base alla normale prassi e buona fede», cioè difficilmente potrebbe essere condivisa, senza obiezioni, dalle altre parti contraenti il trattato, sicché – anche alla luce della Convenzione di Vienna – rimane aperta e fisiologica la possibilità di un conflitto irresolubile tra diritto internazionale pattizio e diritto costituzionale interno.

[7] Così come non potrebbe giustificare la vincolatività interna di decisioni e pronunce da parte di organi sovranazionali, che pur conformi al diritto pattizio siano tuttavia lesive delle regole costituzionali nazionali.

[8] O. Chessa, Dentro il Leviatano. Stato, sovranità e rappresentanza, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2019, 341-342.

[9] Non c’è dubbio che alla base delle operazioni di QE c’è la teoria “quantitativa” della moneta, su cui vedi, per svolgimenti critici approfonditi, O. Chessa, La costituzione della moneta. Concorrenza, indipendenza della banca centrale, pareggio di bilancio, Jovene, Napoli, 2016, 313 ss.

[10] Rimarca in modo incisivo la portata reditributiva della politica monetaria T. Piketty, Le capital au XXIe siècle, Editions du Seuil, 2013, trad. ital. Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano, 2024, 847, ss., spec. 878, e prima ancora  J.K. Galbraith, Economics in Perspectives, 1987, trad. ital. Storia dell’economia. Passato e presente, Rizzoli, Milano, 1990, 303.

 

[11] Si rievoca qui, per analogia calzante, la distinzione che, nell’ambito dei giudizi per conflitto di attribuzioni, si suole fare tra conflitti “per menomazione”, più frequenti, e conflitti “per usurpazione”, decisamente più rari.

[12] Nella Decisione 2020/440 del 24 marzo 2020, che ha dato avvio al PEPP, la BCE dichiara di agire al fine di rimuovere gli «ostacoli agli impulsi di trasmissione della politica monetaria» ed evitare, così, «ulteriori gravi rischi al ribasso per le relative prospettive inflazionistiche». Però aggiunge che «un approccio flessibile alla composizione degli acquisti nell’ambito del PEPP è (...) essenziale per impedire che le attuali dislocazioni della curva dei rendimenti dei titoli sovrani aggregata dell’area dell’euro si traducano in ulteriori distorsioni nella curva dei rendimenti privi di rischio dell’area dell’euro»: in altre parole, l’acquisto dei titoli sovrani riguarderà in maniera particolare alcuni paesi e quindi si discosterà dal criterio del capital key, che vincola gli acquisti a rigide proporzioni tra i Paesi Membri. È palese che l’obiettivo perseguito direttamente da questa “flessibilizzazione” sia quello di impedire un rialzo eccessivo del tasso di interesse dei debiti nazionali più esposti alle paure degli investitori privati.

[13] E che l’intento perseguito sia questo lo rilevano G. Scaccia, Nazionalismo giudiziario e diritto dell’Unione europea: prime note alla sentenza del BVerfG sui programmi di acquisto di titoli del debito della BCE, in DPCE online, 9-05-2020, e A. Guazzarotti, Cose molto cattive sulla ribellione del Tribunale costituzionale tedesco al Quantitative easing della BCE, in laCostituzione.info, 10 maggio 2020.