La riforma fiscale USA

2018-02-24

di Carlo Garbarino – 24 febbraio 2018

La riforma fiscale USA approvata alla fine del 2017 trova la sua genesi nel fallito smantellamento della cd. Obamacare, che avrebbe dovuto introdurre misure dirette a ridurre la spesa pubblica limitando i servizi sanitari. Quando nel corso del 2017 il partito repubblicano ha preso atto di tale fallimento, la riforma fiscale ha costituito l’obiettivo strategico-politico di ripiego, in quanto l’amministrazione aveva la necessità di condurre a termine una riforma che siglasse significativamente il primo anno del mandato presidenziale. Il problema della introduzione di una riforma fiscale nel senso di una riduzione delle imposte era che essa avrebbe evidentemente determinato una riduzione di entrate di circa un triliardo e mezzo di dollari, mentre lo smantellamento della Obamacare avrebbe ridotto direttamente, anche se per una cifra inferiore, la diretta erogazione della spesa pubblica, riducendo quindi anche la necessità di gettito. In altri termini, a spesa pubblica invariata, una riduzione delle entrate implicava un problema di bilancio, o, come si dice di “coperture”.

La soluzione è stata di ipotizzare che la crescita economica generata dagli sgravi fiscali avrebbe più che compensato le perdite di gettito, non considerando quindi gli immediati vincoli di bilancio. Si è trattato di una valutazione prognostica a conti aperti che ha assicurato alla corrente amministrazione una vittoria politica in tempi brevi dopo la precedente debacle. Ed è per questo che  la riforma è stata approvata così rapidamente. La Federal Reserve si è  peraltro mostrata critica riguardo principio di “massima priorità” economica attribuito alla riforma fiscale, indicando una crescita del 2-2,5%, mentre per l’amministrazione la riduzione delle imposte  dovrebbe determinare una crescita economica fino al 6%.

L’analisi che segue si divide in due parti, da un lato il comparto delle imprese, e, dall’altro lato, il comparto delle famiglie. Per quanto riguarda le imprese, innanzitutto è stata ridotta al 21% l’aliquota societaria, e ciò implica una riduzione generalizzata del carico fiscale sia per le imprese domestiche che per gli investimenti diretti stranieri negli USA. Ciò si verifica in quanto è stata espunta la cd. “excise tax”, presente nel progetto di legge, che prevedeva un prelievo del  20% sugli “imports”, vale a dire gli acquisti di beni e servizi da parte di una società residente in USA.

La dizione “excise tax” derivava appunto dal fatto che essa si sarebbe venuta ad aggiungere alla aliquota-base societaria, ancorchè ridotta, esclusivamente sulle società che avessero acquistato beni o servizi dall’estero, e non sulle altre. Più precisamente, in quel disegno, una siffatta società USA che facesse parte di un gruppo estero in sostanza sarebbe stata soggetta non solo alla imposta societaria, ma anche ad un aggravio del 20% sugli imports rispetto a similari acquisti su base domestica, determinando così una distorsione fiscale agli investimenti incentivante le imprese “nazionali”, una vera e propria misura protezionistica che avrebbe impattato negativamente anche imprese USA che si approvvigionassero dall’estero.  Si trattava in sostanza di una misura orginariamente inclusa in una più ampia “destination based tax” poi stralciata, volta ad attrarre negli USA la produzione di beni e servizi che, invece, per ragioni di efficienza economica, sono al momento localizzati fuori dagli USA.

La riduzione dell’aliquota al 21% appare essere macroscopicamente di vantaggio per le multinazionali USA rispetto alla precedente aliquota del 35%. Va detto però che tali soggetti agevolmente evitavano tale aliquota domestica rinviando a tempo indeterminato il reimpatrio degli utili societari (cd. “tax deferral”) e ciò aveva determinato il lock-out effect, cioè l’accumulo fuori degli USA di utili non distribuiti per ammontari stimati di alcuni miliardi di dollari. Con la riforma tali soggetti continueranno ad avvalersi della de-tassazione che verrà quindi resa definitiva in quanto i dividendi distribuiti non sconteranno tassazione in USA, con un sistema molto  simile alla participation exemption adottata in gran parte degli Stati Membri EU.

E’ stato infatti introdotto un meccanismo di territorialità della imposta societaria che non viene prelevata sugli utili delle controllate estere anche quando vengono distribuiti come dividendi, salvo non operino le regole CFC. Trattasi di un meccanismo del tutto simile alla participation exemption, in sostanza una detassazione dei dividendi percepiti dalle società che ha il fine di eliminare la doppia imposizione sui dividendi distribuiti. 

Va però notato che al fine di ricondurre a tassazione i pregressi dividendi non distribuiti risultanti dal lock-out effect è stato introdotto un prelievo una tantum sugli utili accumulati non distribuiti. Con la introduzione della riforma infatti  i profitti pregressi  vengono  tassati indipendentemente dal paese in cui sono realizzati; gli utili attualmente detenuti all’estero sono soggetti a un’aliquota dell’8% per le attività illiquide e di 15,5% per quelle liquide.  Una volta scontato tale prelievo una tantum, il cambiamento non sarà quindi così significativo a regime per quanta riguarda i redditi esteri delle  multinazionali USA che prima erano di fatto esenti in quanto non distribuiti ed in futuro saranno legalmente esenti anche se distribuiti. Ovviamente il discorso è diverso sia per le imprese che operano a livello domestico USA che per gli investitori stranieri che operano negli USA con una società controllata on  con una branch, in quanto per tali soggetti la riduzione di imposta è effettiva e diretta, in assenza di profitti esteri da rimpatriare.

Infine gli  interessi sul debito sono detraibili solo in misura pari al 30% del reddito lordo, con una soglia  più restrittiva nel corso del decennio. Anche in questo caso si tratta di una misura molto simile a quella adottata da Stati Membri UE ed OCSE (i quali però invece che al reddito lordo si riferiscono all’EBITDA (Earnings Before  Interest Taxes and Depreciation Allowances), in particolare ove si consideri che il sistema fiscale USA in precedenza non aveva misure forfettarie così nette.

In conclusione, per quanto riguarda il comparto delle imprese, ove si guardi al livello delle aliquote, al regime dei redditi delle controllate estere, alle norme in materia di deducibilità degli interessi, non si può che concludere che  si sia verificato un allineamento degli USA allo standard ed UE, ed in particolare che gli USA si sono allineati alle policies OCSE ed UE in materia di prevenzione del fenomeno della “base erosion and profit shifting” (Beps). Queste due forme di allineamento appaiono incongruenti rispetto alle declamazioni dell’attuale amministrazione di rendere gli USA un Paese che devia rispetto a forme di multilateralità o convergenza, ma non si può negare che Europa ed USA nei reciproci investimenti useranno regole fiscali abbastanza simili e questo è un dato positivo. Certo è necessario verificare in concreto come queste regole saranno in concreto applicate. Dalla UE sono state infatti già avanzate critiche circa una pretesa indebita competizione fiscale da parte degli USA sviluppata  dalla riforma, ma si deve notare che sotto tale profilo la riforma effettivamente attuata allarma molto meno rispetto alla precedente ipotesi nazional-protezionistica della destination based tax.

E’ per quanto riguarda il tessuto sociale e le famiglie che sorgono criticità, che però attengono specificamente il contesto nazionale USA. In via generale le aliquote sono state ridotte fino  al 2025 (inclusa l’aliquota massima), rimanendo però nel numero di sette. Molte detrazioni sono eliminate (fra cui quella per le imposte statali e locali, a parte una  franchigia), ma quella standard è circa raddoppiata. Il credito di imposta per i figli è raddoppiato, l’obbligo di avere un’assicurazione sanitaria è eliminato, l’imposta di successione ha una franchigia circa doppia (11,2 milioni di dollari). E’ però a fronte di questa apparente e lineare riduzione delle aliquote personali che emergono possibili effetti incongruenti sui diversi ceti sociali. In primo luogo la riforma non considera le classi meno abbienti, anzi l’obbligo della assicurazione sanitaria personale è eliminato e ciò avrà effetti  negativi sui premi delle polizze. Gli americani che non hanno votato nel novembre 2016 (circa la metà della popolazione) continuano a non essere politicamente rappresentati nemmeno fiscalmente.

Inoltre la classe media – che ha costituito il sostegno elettorale di Trump – beneficia di riduzioni che però scadranno nel 2025, e ciò genera incertezza. Vi potranno infatti essere situazioni di aumento delle imposte per la classe media, ad esempio in relazione a detrazioni quali costi per servizi professionali e così via che tipicamente favorivano i ceti abbienti, in quanto tali detrazioni  sono state eliminate, come anche la detrazione delle imposte statali e locali eccedenti la franchigia, col risultato che i contribuenti in stati con aliquote più elevate saranno maggiormente svantaggiati dalle modifiche. La fascia più alta dei più abbienti invece beneficia pienamente della riforma: secondo una stima del Tax Policy Center il 5% dei contribuenti che pagherà più imposte nel 2018 non include tali soggetti, anche in ragione della franchigia assai elevata dell’imposta di successione.

Un aspetto molto importante è l’abolizione della detrazione dalle imposte federali dovuto a livello personale delle  imposte statali e locali, un meccanismo strutturale del federalismo fiscale USA che ha sempre consentito una coesistenza del livello di imposizione federale e locale. Ed infatti la piena detrazione delle imposte locali ha tradizionalmente lasciato discrezionalità per gli stati più orientati al welfare e più demograficamente importanti (come ad esempio lo Stato di New York o la Califirnia) di prelevare aliquote piuttosto elevate, essendo tale prelievo controbilanciato dalla deducibilità delle stesse. La attuale indeducibilità ora riduce ampiamente la possibilità di mantenere aliquote locali elevate, risolvendosi di fatto in una pressione pre una riduzione anche delle aliquote locali. La conseguenza è stata che in svariati Stati si stanno predisponendo modalità che, seppur in via indiretta, mantengono nella sostanza la detrazione

A ciò si aggiungono distorsioni create dalle cd. “pass-through”, veicoli fiscalmente trasparenti – in sostanza l’equivalente delel società di persone non commerciali del diritto civile continentale - che attribuiscono a persone fisiche operanti soltanto in alcuni settori – ad esempio real estate – significative riduzioni di imposta escludendoli dalla progressività su redditi molto elevati. Più precisament . Le  società di persone, restano tassate come le persone fisiche, ma hanno una detrazione del 20% del reddito. Secondo le stime della Tax Foundation questa misura, insieme alla riduzione dell’aliquota massima individuale, equivale ad una  detrazione del 29,6%, con l’effetto che l’aliquota effettiva dei beneficiari dei redditi, nel contesto di tali strutture giuridiche scenderebbe al 26,5%, Si determina così un incentivo fiscale ad utilizzare le strutture pass-through, con l’effetto che salari e redditi di impresa saranno tassati differentemente avvantaggiando i secondi anche quando il veicolo non è una società di capitali.

Infine le misure della riforma fiscale riguardo alle famiglie determinano instabilità politica, e questo sotto diversi aspetti. In primo luogo, il fatto che gran parte delle riduzioni fiscali scadranno nel 2025 determinerà notevoli tensioni che già si potrebbero avvertire nelle elezioni di mid-term nel 2019. Certo non si possono varare norme fiscali non modificabili nel futuro, ma una base bipartisan in questi casi è garanzia di stabilità. Quanto è avvenuto, invece - diversamente da quanto avvenne con la riforma del 1986 – è che le misure non sono state negoziate coi democratici, i quali  non avranno alcun interesse a mantenerle in una successiva congiuntura politica in cui fossero in maggioranza. Inoltre è probabile che svariate misure nel medio termine siano pure contestate dai repubblicani moderati.

Manca anche una visione prospettica in quanto le misure fiscali probabilmente favoriranno una  crescita di breve termine che peraltro interviene in un momento in cui l’economia è già al pieno impiego, ma a medio-lungo si profila un aumento del  deficit e del debito. In conclusione, ancorchè le misure sulle imprese migliorino la competitività del sistema fiscale USA, la riforma nel complesso ha effetti tendenzialmente regressivi in quanto maggiori sono i redditi, maggiori gli sgravi (con per contro limitatissimi benefici per i redditi bassi), ed al contempo si prospettano importanti elementi di instabilità politica, mentre i temi della redistribuzione e della  disuguaglianza di fondamentale importanza nel tessuto socio-economico USA sono stati completamente trascurati.