Pirati, cavalieri e Congresso in ostaggio

2018-01-23

di Luigi Testa - 23 gennaio 2018

Ci sono due nemici nel Budget Process degli Stati Uniti. Il primo, invero non esclusivo di questo campo, è il pirataggio dei filibusters al Senato, che complica il versante dell’autorizzazione legislativa alla spesa pubblica (Appropriations). Il secondo, appannaggio esclusivo dei procedimenti di finanza pubblica – e, nel caso, dello spazio destinato alla legislazione fiscale (Reconciliation) – è quello che la dottrina francese (non se la prendano gli americani, ma l’espressione è efficace) chiamerebbe i cavaliers budgétaires: disposizioni a carattere non strettamente finanziario, ma sistemico, che per la loro natura avrebbero dovuto essere destinate ad altri contenitori legislativi.

Il dramma è che pirati e cavalieri sono tra di loro in rapporto di causalità inversa: quanto più forti sono i primi al Senato, tanto più i secondi aggrediscono armati. Fuor di metafora, quanto più il filibustering è forte – mancando alla forza di maggioranza relativa quella super-maggioranza di sessanta che è necessaria per adottare una cloture motion necessaria a chiudere il dibattito e passare ai voti – tanto più cresce la tentazione di “blindare” le iniziative legislative più scottanti, riversandole nel Reconciliation Process, procedimento motorizzato, con tempi fissi di dibattito, dove il filibustering non è possibile. Così, se l’Appropriation Process non fa passi avanti, per la difficoltà di portare il dibattito ad una fine tra le pratiche di ostruzionismo dell’opposizione, il Reconciliation Process diventa lo spazio in cui si riversano tutte le tensioni del dibattito politico, e dove la maggioranza riesce a far passare facilmente (con “soli” 51 voti, al Senato) le iniziative che altrove l’ostruzionismo impedisce.

Non che il Reconciliation Process fosse stato pensato, all’inizio, per diventare questo – una specie di refugium peccatorum. Lo strumento in questione è stato introdotto nel 1981, nell’ambito di un più generale tentativo di riguadagnare terreno al Congresso, nel campo della finanza pubblica, rispetto ad un Presidente che, soprattutto dall’introduzione del Presidential Budget nel 1921, si era sempre più imposto come indiscusso dominus del procedimento. Non è un caso che la procedura di Reconciliation venga progettata appena pochi anni dopo l’introduzione, nel 1974, della concurrent resolution del Congresso, pensata proprio come strumento unitario contrapposto all’unitaria iniziativa presidenziale. Proprio alla concurrent resolution, d’altra parte, il Reconciliation Process è strettamente legato, perché è la prima a contenere le istruzioni alle Commissioni di merito per l’elaborazione dei Reconciliation Bills contenenti le misure di armonizzazione della legislazione fiscale.

Che tutto questo fosse in crisi, in realtà, è storia vecchia. Presto, il procedimento di Reconciliation – pensato come strumento di razionalizzazione e di buon governo dell’economia – diventa un’occasione troppo ghiotta per le forze politiche che, pur contandosi in metà più uno, non dispongono dei voti necessari per bloccare l’ostruzionismo al Senato negli altri procedimenti legislativi (e dunque anche nell’Appropriation Process). E il Reconciliation Process finisce così per essere il momento in cui la maggioranza di turno tenta “il colpaccio”, facendo passare misure che altrimenti sarebbero ostacolate dal filibustering.

Anche nell’esperienza più recente, non sono mancati episodi poco gloriosi di questo genere. Senza andare troppo lontani nel tempo, nel 2015, un Reconciliation Act diventa il cavallo di Troia della maggioranza repubblicana – maggioranza sì, ma senza i numeri per una cloture motion – per smontare la riforma sanitaria varata poco prima da Obama. La vicenda si chiude, non nel migliore dei modi, nel gennaio 2016, con il veto presidenziale: era la quarta volta – dopo il 1995, il 1999 e il 2000 – che la Casa Bianca rifiuta di firmare un Reconciliation Act. (Chissà se il Presidente Obama, in quella occasione, ricordava che anche la sua maggioranza, all’inizio, c’aveva fatto un pensierino a far passare il Patient Protection and Affordable Care Act con il Reconciliation Process. Ma poi lì le cose andarono diversamente, e la riforma passò per il canale tradizionale, pur con l’assicurazione, per l’opposizione repubblicana, di intervenire con minime riforme con i Reconcilation Bills dell’esercizio finanziario successivo: divide et impera). Peraltro, soltanto per il 2009 e il 2015 Obama si trova a dover firmare Reconciliation Acts approvati dal Congresso: per tutti gli altri esercizi finanziari della sua Presidenza, il Reconciliation Process non inizia proprio, perché le Camere non trovano l’accordo per l’adozione della concurrent resolution, e dunque mancano le necessarie istruzioni. [Se si vuole, sulle performances del Budget Process nella Presidenza Obama, si può vedere L. Testa, Prime note sul Budget Process dell’era Obama: un regular disorder «ultima spiaggia» dello scontro politico, in Nomos 2/2016]. 

Questa volta, la concurrent resolution è approvata, il 26 ottobre, e il Titolo II, sez. 2001 e 2002, contiene delle reconciliation instructions per la Commissione finanziaria e per quella sull’energia e le risorse naturali: per la prima, modifiche fiscali che non portino però ad un deficit superiore a $1,500,000,000,000, da qui al 2027; per la seconda, a parziale compensazione, un taglio non inferiore a $1,000,000,000. Il 2 novembre, comincia alla Camera l’iter del relativo Reconciliation Bill, approvato in quattordici giorni con 227 voti favorevoli contro 205 contrari. Il passaggio è relativamente rapido anche al Senato – dove tuttavia il procedimento in aula è rallentato dalla presentazione di una serie di mozioni che ne chiedevano il ritorno alla Commissione finanziaria per un riesame –, e, il 2 dicembre, anche la Camera alta approva il testo, con la maggioranza di 51 su 100. Un secondo passaggio tra Rappresentanti e Senatori per risolvere le differenze tra i due testi, e il testo definitivo, il 21 dicembre, è presentato al Presidente, che firma il giorno successivo. In un mese e mezzo, Donald Trump porta a casa così la riforma fiscale, col suo bel taglio da 1.500 miliardi di dollari in dieci anni, che – fuori dal Reconciliation Process – si sarebbe arenata al Senato, dove la maggioranza presidenziale ha solo 52 voti: troppo pochi per bloccare l’ostruzionismo democratico (senza contare i “traditori”, come Corker, del Tennessee, che non ce la fa a votare Yea con gli altri repubblicani).

Nel dibattito al Senato qualche malumore emerge, evidentemente. Soprattutto, i democratici denunciano che la natura motorizzata del Reconciliation Process abbia impedito un dibattito tanto approfondito quanto l’impatto della misura da approvare avrebbe richiesto. «There were no public hearings on the specifics of this legislation, and people wonder why the American people oppose it. Republicans have chosen to ignore them. They have chosen to ignore them. What is happening is un-Democratic»: così il senatore Ron Wyden, spalleggiato da Sanders. «No hearings, no amendments, no real debate», incalza Cantwell. «A sham debate», l’aveva chiamato Wyden, senza mezzi termini. Certo, non è la prima volta che la procedura di Reconciliation viene impiegata per far approvare misure che altrimenti sarebbe stato difficile far passare. Ma, dall’ ’80 ad oggi, è solo la quarta volta che il trucchetto funziona con 51 voti, il minimo dei suffragi: due volte l’aveva fatto Bush jr., e prima di lui soltanto nel 1993. Le altre volte, i consensi a favore della misura imboscata erano comunque sempre superiori alla semplice maggioranza.

Almeno, i democratici riescono ad impedire che il Reconciliation Bill passi col titolo di Tax Cuts and Jobs Act, cui pare che Trump tenesse molto, optando per un più neutro An Act to provide for reconciliation pursuant to titles II and V of the concurrent resolution on the budget for fiscal year 2018. Per riuscirci, Sanders invoca la c.d. Byrd rule, dal nome del suo proponente, il senatore Robert C. Byrd, incorporata nel 1990 nel Budget Act del ’74. Si tratta di una regola utile a stralciare «extraneous matter in reconciliation legislation», e tra queste certamente rientra una misura a carattere strutturale come quella globalmente realizzata dalla riforma fiscale in questione. Vi si può derogare soltanto con una mozione approvata a maggioranza dei tre quinti dei senatori, e quella proposta dal Senatore Enzi di voti ne ottiene soltanto (i soliti) 51.

Ma il titolo, in fondo, è poca roba. Trump lo sa che deve ringraziare le regole speciali del Reconciliation Process per aver portato a casa il risultato. Dall’altra parte, sta lottando a denti stretti per riuscire a far passare al Senato gli Appropriation Acts recanti l’autorizzazione della spesa pubblica. Di regola, avrebbero dovuto essere approvati entro l’inizio del nuovo esercizio finanziario, il 1° ottobre, ma si è tirato avanti con un esercizio provvisorio à la americana, inizialmente destinato a spirare il 19 gennaio. A quella data, l'opposizione democratica è, invero, arrivata più agguerrita che mai, provocando un blocco dell'attività amministrativa – il terribile shutdown, che non si vedeva dal 2013 con Obama –, con Trump che lancia su Twitter l’ipotesi di una nuclear option, sul modello dell’«operazione Gorsuch», che però parrebbe esclusa per i procedimenti legislativi – al cui novero appartiene l’Appropriation Process [su questo tema, se si vuole, si veda, già da questo Osservatorio, L. Testa, Trump, Justice Gorsuch e i corsari in laticlavio]. Il blocco dura fino alla notte tra il 22 e il 23 gennaio, quando si trova l’accordo per una Continuing Resolution, che garantisce una copertura fino all’8 febbraio. Entro quella data, il Congresso dovrà riuscire ad approvare i dodici Regular Appropriation Acts (o, molto più probabilmente, un unico Omnibus Appropriation Act), o almeno una nuova Continuing Resolution, che nulla impedisce possa disporre un esercizio “provvisorio” (virgolette d’obbligo, a questo punto) per l’intero anno fiscale  – come già Obama nel 2011, prima volta nella storia. [Qui una overview dell’Appropriation Process 2018].

Che il Budget Process fosse in crisi, lo si anticipava, non è una novità. Il versante dell’autorizzazione di spesa soffre per un selvaggio ostruzionismo, lasciato forse troppo libero; la procedura di Reconciliation si risolve nel ricettacolo di tensioni politiche accumulate altrove, prestando il fianco a strumentalizzazioni contro natura. Chi ne è ostaggio, ovviamente, è il Congresso, vittima quasi per implosione. E quello che è peggio è che non sembra che il momento sia quello giusto, almeno per ora, per un sereno ripensamento delle regole.