[FORUM DPCE Online - Westminister] Alcune note sull’elezione parlamentare britannica dell’8 giugno 2017: una soluzione (inefficace) peggiore del problema

2017-06-10

di Alessandro Torre 

Da qualche tempo a questa parte accade che i governanti si avventurino un po’ pericolosamente sullo scivoloso piano di un rapporto con l’elettorato che può riservare amare sorprese. Ciò può avvenire quando in modo alquanto azzardato o forse solamente superficiale, si indicono referendum su questioni che potrebbero produrre effetti molteplici sugli equilibri del sistema di governo rischiando che questi vadano fuori controllo, oppure si attivano elezioni da cui ci si attende un effetto corroborante che non si realizza. Così è avvenuto in un Regno Unito in cui la saggezza degli statisti mostra qualche segno di cedimento a tentazioni che nel più benevolo dei casi possono essere definite come poste sotto il segno dell’azzardo.

L’elezione parlamentare dell’8 giugno si pone, ovviamente, sotto l’egida del referendum sulla Brexit che nel giugno 2016 ha scoperchiato un tipico vaso di Pandora determinando numerose implicazioni politiche, economiche, sociali e costituzionali (e queste ultime in particolare interessano il giuscomparatista): frutto di una evidente sopravvalutazione dell’impatto della propaganda euroscettica dell’UKIP, questa consultazione apriva la via verso il recesso del Regno Unito dall’Unione Europea e sprigionava una sequenza di incidenti politico-istituzionali di cui, in ultima istanza, s’è dovuta occupare una UK Supreme Court sempre più costretta a operare da giudice costituzionale. L’esito di questo referendum determinava le dimissioni del premier Cameron che ne aveva determinato l’indizione, aprendo una successione che ha visto l’ascesa, invero frutto di un compromesso fra i vertici del partito Conservatore, di Theresa May, la quale a sorpresa, curvando alle sue affrettate valutazioni quanto dispone il Fixed Terms Act 2011, con il supporto di un’ampia maggioranza nella Camera dei Comuni a cui per l’occasione si erano uniti anche i Laburisti fissava nuove elezioni. Delle conseguenze dell’azzardo referendario sulla Brexit molto si è scritto su questa Rivista online, e in Italia un ampio volume collettivo che ne approfondisce l’analisi è dato alle stampe in questi giorni; quali invece le conseguenze dell’esito elettorale dell’8 giugno?

Con queste sciagurate elezioni (ovviamente, se le si guarda attraverso le lenti dei tories) due obiettivi tattici che la Signora May aveva posto alla base della sua scelta sono tutt’altro che realizzati.

L’ampliamento della forza parlamentare del partito di governo non ha avuto luogo: con appena 318 seggi il partito conservatore non solo non ha esteso la sua rappresentanza, ma anche – e soprattutto – è andato al di sotto della soglia che gli avrebbe consentito di governare. In altri termini, la premiership onservatrice ha inflitto un duro colpo alle proprie posizioni parlamentari entrando in quella condizione di hung government che raramente si verifica nella storia parlamentare di Westminster, ma quando si concretizza mina alle basi la possibilità di governare al sicuro e obbliga a cercare  l’una o l’altra soluzione: come nel 1974, indire entro pochi mesi nuove elezioni (ma in questo caso una seconda vittoria può non produrre una maggioranza eclatante); o, come nel 2010, cercare un’alleanza con un partito minore, disponibile ad operare come stampella per le malferme posizioni della maggioranza relativa (da qui nasceva la coalizione conservativo-liberale giunta fino al 2015).

La distruzione di un partito laburista che si supponeva fosse un gioco da ragazzi non si è realizzata. Questo il secondo obiettivo immediato delle elezioni, frutto anch’esso di una palese sopravvalutazione: quella della crisi del maggiore antagonista che si oppone al partito conservatore in quella politica “avversariale” e bipolare che configura il motore del sistema di governo del Regno Unito. Una leadership laburista, quella di Jeremy Corbyn, ripetutamente messa in crisi dalla dirigenza del partito e dai risultati dei sondaggi sulla sua popolarità, ha infine contrastato un conservatorismo che si attendeva una vittoria facile, tenendo un confronto testa a testa che infine ha prodotto una rappresentanza di 262 seggi. Il sostegno tributato al Labour e al suo leader, fortemente concentrato nella grande metropoli londinese (ove alcuni collegi tradizionalmente tory si sono espressi in altra direzione) e nelle maggiori aree industriali, ha sovvertito il programma conservatore, realizzando un revival del Laburismo in una versione radicale che si pone in antitesi rispetto agli orientamenti che nel 1997 avevano agevolato la “valanga” blairiana. Di questo Laburismo, che alcune cose potrebbe insegnare a diversi partiti sedicenti progressisti del continente euro-mediterraneo, di certo sentiremo parlare nei prossimi tempi.      

Ma, al di là della débâcle tattica di cui si sono sintetizzati gli aspetti più appariscenti, due elementi di strategia della leader conservatrice sono oggi gravemente minacciati. Particolarmente impegnative saranno di certo le proiezioni della battuta di arresto di quelle che la Signora May intravedeva come le “magnifiche sorti e progressive” dello schieramento conservatore e, ovviamente, dall’Esecutivo da lei guidato. Queste proiezioni si apprezzano sullo scenario della negoziazione con l’Unione Europea: se un consolidamento del consenso elettorale era considerato una base determinante per entrare con una maggiore capacità di impatto nella fase delle trattative, ebbene questa opportunità è sfumata. Tutto sommato, il referendum sulla Brexit aveva favorito le posizioni euroscettiche con una maggioranza alquanto esigua (tanto per intenderci, bel più ristretta di quella che nel 214 aveva visto fallire il referendum indipendentista in Scozia), e una maggiore affluenza di voti conservatori avrebbe dato un supplemento di persuasività all’opzione anti-europea.

Anche in questo caso, una sopravvalutazione evidente, o meglio un pesante errore di valutazione: sulla determinazione di indire le elezioni in via anticipata influivano taluni sondaggi che pochi dubbi lasciavano nutrire circa una schiacciante vittoria conservatrice, ma poco ascolto era dato ad altri più significativi sondaggi che registravano un diffuso malcontento di strati della società civile (e dell’opinione pubblica, che mi ostino a considerare sua figlia prediletta) a proposito della scarsa correttezza con cui i brexiteers, e in particolare l’UKIP e i più radicali Conservatori, avevano condotto una campagna disinformativa che a tratti si era rivelata perfino menzognera. Il secondo elemento del fallimento strategico è interno al partito conservatore, la cui leadership emerge dalla vicenda elettorale certamente indebolita. Non credo che trascorrerà molto tempo prima che le posizioni della Signora May siano poste in discussione da una dirigenza spietata: basterà che la formazione di un nuovo governo (di coalizione, ovviamente) a guida May entri in difficoltà o non si realizzi, o che – nel caso che questa operazione vada a buon porto con l’ausilio del Democratic Unionist Party, i cui 9 seggi farebbero un dannato comodo al Governo “sospeso” – i negoziati con l’Unione Europea diventino disagevoli e poco vantaggiosi, e il gioco del massacro potrebbe diventare reale. Una crisi di popolarità può determinare, soprattutto in campo conservatore, la caduta di una leadership fino a poco prima autorevole: in realtà, è bene ammetterlo senza troppe reticence o falsi riguardi, la Signora May è appena una brutta copia della Thatcher.

Della scomparsa dell’UKIP non vale la pena prendere atto dedicando a questo partito populista appena un’alzata di sopracciglio: è una sorte ben meritata, che già nelle elezioni immediatamente successive al referendum sulla Brexit si profilava con piena evidenza. Qualcosa di simile, per quanto si possa provare maggiore simpatia per chi si è sempre impegnato per il riformismo e per l’adesione europea, si è realizzato con il partito dei Liberal-Democrats che, pur avendo conosciuto un’effimera fortuna in precedenti tornate elettorali, oggi torna ad essere fortemente penalizzato con i suoi 12 seggi.  I maggiori problemi si stanno invece determinando nella Scozia che un tempo europeista e oggi lo è un po’ meno. Lo Scottish National party ivi governante e, fino a qualche tempo fa proteso verso un secondo referendum separatista come reazione alla svolta euroscettica del resto della Gran Bretagna, ha visto ridursi a 35 il drappello di combattivi parlamentari che andrà a occupare seggi ai Comuni. Molti dei collegi persi dal nazionalismo sono stati conquistati da candidati conservatori e laburisti: in entrambi i casi, che si stia facendo strada in Scozia uno spirito euroscettico, o almeno prudente? Ma mentre la Scozia, alcuni dei cui distretti sono intrisi di radicalismo, è stata una delle culle storiche del Labour (e pertanto il  revival del partito di Corbyn può essere considerato con naturalezza), sorprendono le vittore dei Conservatori, di solito poco apprezzati nelle aree “celtiche”. Che fine farà la questione dell’indipendenza: è probabile che il nuovo referendum sarà messo in secondo piano nei programmi nazionalisti e che, in attesa dell’esito dei negoziati con l’Unione Europea, la Scozia si accontenti della devolution max che le ha attribuito un’autonomia quasi-federale.

 Più complicato è il quadro nord-irlandese, se non altro per il fatto che la Signora May ha già aperto trattative affinché il Democratic Unionist Party, di cui si è detto poc’anzi, dia sostegno al nuovo Esecutivo a guida tory o mediante un supporto esterno o, più probabilmente, aderendo a una coalizione. L’oltranzista partito dei protestanti dell’Ulster, già acerrimo nemico del Sinn Féin che tuttavia con quest’ultimo aveva miracolosamente formato l’unica coalizione di governo che fosse in grado di realizzare un pacifico equilibrio nella fragile devolution dell’area, è anche l’unica formazione che accetterebbe di collaborare con i tories britannici. Purtuttavia dall’Irlanda del Nord emergono alcune contraddizioni che possono diventare alquanto stridenti. Nonostante le posizioni della sua leadership in occasione del referendum sulla Brexit, è ben diffuso in questo partito un sentimento europeista che poco si potrebbe conciliare con l’emersione di duri brexiteers nell’Esecutivo di Londra. Se a ciò si aggiunge che il Sinn Féin, partito dei separatisti cattolico-repubblicani (i cui eletti di solito non occupano seggi a Westminster per non giurare fedeltà alla Corona) che ha conquistato 7 seggi, è invece fortemente filo-europeo tanto da dare sostegno a un’ipotesi di congiungimento alla Repubblica dell’Éire, questa antitesi darebbe luogo, in caso di formazione della coalizione degli Unionisti con i Conservatori, a un deterioramento di relazioni faticosamente raggiunte “sul campo” dell’amministrazione attiva e fors’anche a una ripresa di una conflittualità che si sperava sopita. Considero questo un punto di crisi degli eventi politico-istituzionali del futuro prossimo, su cui ci si dovrà soffermare con attenzione.

Che l’intera vicenda elettorale si sia posta nell’ombra della Brexit e nella prospettiva dei negoziati attivati con l’art.50 (ma non ancora iniziati: saranno di certo negoziati “duri” per via della crisi di legittimazione dei negoziatori britannici attesi al varco dai loro interlocutori europei) è cosa ben nota. Dell’influenza degli attacchi terroristici di Manchester e sul London Bridge, e delle diverse posizioni assunte nella campagna elettorale dalla Signora May e da Jeremy Corbyn nulla si dirà perché il discorso merita un approfondimento basato su riflessioni più accurate. Ma di certo si può dire che l’azzardo conservatore, ponendosi sulla scia di anteriori incidenti costituzionali, ha aperto una stagione in cui l’evolutività costituzionale non cessa di riservare sorprese. Di questo si discuterà il 12 giugno, nell’Istituto Italiano di Cultura di Londra, con autorevoli relatori e (almeno si spera) forte affluenza di pubblico, in occasione di un Colloquio costituzionalistico sul tema Facing Up to Brexit: UK and Italian Constitutional Perspectives che vedrà partecipe, insieme ad altri sodalizi scientifici italiani e britannici, anche l’Associazione DPCE. 

 Di solito le elezioni vanno lette con molta ponderazione, ma qualche osservazione “a caldo” come questa che propongo prima di muovermi verso la capitale del Regno Unito, vista la ristrettezza dei tempi e l’urgenza dell’ora, può oggi aprire il passo a ulteriori e certamente più meditati contributi: non manca infatti chi in Italia si occupa di cose britanniche con passione e competenza.